IL LINGUAGGIO DEL TERRITORIO.
LA CONQUISTA DELL’INVISIBILE.
Volontà dell’edizione di quest’anno è costruire un racconto visivo dell’area mediterranea che, attraverso i differenti linguaggi della fotografia, associ le diversità culturali alle trasformazioni che investono il territorio. Nella nostra riflessione la parola linguaggio assume un duplice significato. Da una parte in quanto modalità di espressione artistica, dall’altra come strumento per riportare i messaggi che il territorio stesso comunica.
Lo scrittore Paul Valery diceva che “Il disegnatore deve distruggere l’abitudine a vedere le cose con lo sguardo quotidiano”. Noi, volendo, possiamo sostituire la parola disegnatore con tante altre quali ad esempio scrittore, fotografo o regista ma anche genericamente con persona. Perché cambiare abitudine porta a percepire le cose del mondo in maniera differente.
Gli elementi che occupano il suolo, quali le delimitazioni o le costruzioni così come le persone e le immagini, sono i simboli che ci possono mostrare le convenzioni sociali di un luogo in un dato periodo. Non tutto ciò che è presente nello spazio è però subito visibile agli occhi di chi guarda. Come riuscire quindi a palesare ciò che è invisibile?
Insistendo con lo sguardo, perché ciò che diventa chiaro ai nostri occhi può essere (ri)trasmesso. Per conoscere e progredire occorre, dunque, individuare e conquistare l’invisibile. Occorre passare da una visione simbolica a un pensiero che individui la dimensione fisiognomica dell’ambiente sia questo urbano o paesaggistico. E trattare il territorio come un volto, ovvero un luogo di affezione ricco di espressioni. Da leggere, da ascoltare. Dovremmo, cioè, realizzare un détournement delle indicazioni del filosofo W. Benjamin quando suggerisce che “avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare” e allora noi mettiamoci a osservare il mondo e (ri)diamogli l’aura cosicché poi esso ci guardi, magari anche lui con insistenza.
In questo procedere di voltificazione del territorio riavviciniamoci all’ambiente perché esso esprimendo una forma culturale è in fondo una rappresentazione dell’Io.
Sono stato nominato direttore artistico della V edizione del Ragusa Foto Festival.
Inserisco in questa pagina i testi di accompagnamento alle mostre e il testo “manifesto” del festival.
Il titolo di questa edizione è Il linguaggio del territorio.
Molto importante per questo festival è stata la presenza del collettivo degli Alterazioni Video che hanno lavorato su una opera incompiuta: il Palaroma di Comiso.
Olivo Barbieri
Seascape #2Castel dell’Ovo , SEVILLA→(∞) 06.
Olivo Barbieri è presente al festival con due film Seascape #2, Castel dell’Ovo girato in digitale a Napoli nel 2006 con un prototipo di drone e SEVILLA→(∞) 06, anch’esso del 2006 ma girato in 35mm. Entrambi fanno parte del suo decennale progetto Site Specific. Questo termine è normalmente usato per descrivere opere d’arte temporanee che sono concepite per un luogo specifico. Le riprese aeree di Barbieri sono rappresentazioni artificiali del mondo. Ci concediamo questa tautologia perché essa ci conduce a vedere nelle intenzioni di Barbieri l’idea del territorio come avatar di se stesso e anche a meglio comprendere la sua affermazione “Cerco di guardare il mondo come un impianto”. In tutta la serie Site Specific la Terra è vista dall’alto, ed è proprio la distanza dal suolo che concede all’artista, come allo spettatore una visione differente. “Dopo l’undici di settembre volevo capire cosa si provasse capovolgendo il punto di vista: da oggetto terrestre minacciato a oggetto volante minaccioso”. L’altezza è un luogo che ci permette soprattutto di osservare piuttosto che essere osservati. Dall’alto, poi, i rumori e le parole del territorio spariscono e ci concedono di percepire solo l’immagine. La forza delle immagini di Barbieri sta anche in questo, nel sottolinearne il vigore e nel vedere il mondo come una installazione temporanea, qualcosa di non finito e per questo motivo più facilmente reinterpretabile.
Moira Ricci
Da buio a buio.
La mostra di Moira Ricci, per usare le parole di Andrea Lissoni, è uno stralunato reportage.
La ricerca artistica di Moira rilegge e rivisita la tradizione orale della Maremma, la sua terra di origine, facendola rivivere per mezzo della ricostruzione per immagini di alcune leggende legate ad alcuni personaggi. “Ci ho messo tre anni frugando nelle biblioteche, negli archivi privati e nell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma. Cercavo più documenti possibile per le quattro storie di cui volevo parlare”.
“La bambina cinghiale”, “L’uomo sasso”, “Lupo mannaro”, “Gemellini” erano storie che le venivano raccontate quando era piccola e che diventano adesso parte dell’immaginario contemporaneo attraverso un insieme di fotografie registrazioni sonore, ritagli di giornali, tracce e video da lei creati che pongono il suo spettatore sulla soglia della credibilità e dell’incredulità, lasciandogli il sospetto che ciò che ha visto e ascoltato sia veramente appartenuto al reale.
Nicolò Degiorgis
Hidden Islam
Hidden Islam ha ottenuto vari riconoscimenti internazionali tra cui l’Author Book of the Year, Rencontres d’Arles (2014) e l’Aperture Paris Photo First Book Award (2014). Nicolò Degiorgis ha realizzato una capillare documentazione di luoghi di culto musulmani nel nord-est italiano. La sua metodologia di lavoro prevede due approcci, uno diretto a mostrare anonimamente gli esterni degli edifici e l’altro a riprendere gli interni degli stessi luoghi durante la preghiera. La fotografia è dunque strumento di indagine che mostra la precarietà delle moschee in Italia ma anche strumento per mostrare un nuovo paesaggio che nasce dalla presenza di nuovi riti religiosi sul territorio. L’intento di Nicolò è “quello di riuscire a creare una simbiosi tra documentazione fotografica e ricerca scientifica”. Il libro è autoprodotto dalla casa editrice Rorhof, fondata da Degiorgis, e reca una introduzione del fotografo inglese Martin Parr.
Nikolas Ventourakis
The Banality of the Avante Garde.
Cosa vediamo nelle fotografie di Ventourakis? Cosa sono queste colate di cemento e asfalto in un ambiente naturale? Passaggi, scale, strade che non conducono a niente e che pare non debbano assolvere ad alcuna funzione. Sono forse delle opere di land art? Ci sfugge forse qualcosa mentre guardiamo queste fotografie? Perché queste cicatrici?
Ai margini di un’area turistica vicino Salonicco le fotografie di Varoufakis mostrano gli sfregi che la terra ha subito a causa di un progetto truffa che ha acquisito dei fondi per costruire una strada per poi abbandonare il sito e lasciare i lavori non conclusi. Le immagini portano, fra le altre, a un’importante riflessione: probabilmente la natura è in grado di sopportare le modifiche che l’uomo le apporta ma lo farà sempre e comunque nel modo in cui essa risulterà dopo essere stata modificata.
Ciro Cangialosi
L’isola dei ciclopi.
I segni che rimangono della guerra sono anche di cemento e si trovano spesso in punti che un tempo dovevano essere strategici. Avvistare ci fa pensare a scorgere qualcosa che è distante, alla vista piccolo sull’orizzonte, ma che potenzialmente avvicinandosi può divenire pericoloso e da cui perciò può essere necessario difendersi. Nel nostro tempo di satelliti e di droni questo modo di vedere e scorgere il pericolo attraverso cannocchiali e feritoie è così tanto distante tecnologicamente quanto vicino temporalmente.
Sono immobili e oramai ciechi e silenziosi questi ciclopi: architetture temporanee che hanno perduta la loro originaria funzione e vengono a loro volta fotografati e quindi avvistati. Rovine della storia contemporanea paiono privi di interesse storico-artistico e probabilmente hanno resistito al tempo più a lungo di quanto esse stesse avrebbero potuto immaginare. Il tempo e le modificazioni del territorio probabilmente le cancelleranno, le immagini resteranno per la memoria.
Carmen Cardillo
Oily Way
Il lavoro fotografico di Carmen Cardillo è una ricognizione delle foci dei maggiori fiumi siciliani iniziata nel 2007. L’installazione triangolare delle fotografie di Carmen apre un nuovo spazio che attraverso la forma ci conduce a interrogativi. Forse vorremmo vedere delle immagini diverse, non perché queste non ci piacciano in sé, ma perché vorremmo che il territorio fosse differente, vorremmo in esso ritrovare ideali che adesso ci appaiono irraggiungibili, utopici. E così mentre lo sfruttamento dei corsi d’acqua siciliani prosciuga i letti dei fiumi, il verismo e l’oggettività delle fotografie della Cardillo ricorda la tecnica narrativa di Verga, che con la fotografia entrò in contatto fin da piccolo. Leggendo queste fotografie facciamo finta di volere ma in realtà non abbiamo voglia di renderci conto che fra le pieghe dei colori della luce dell’acqua e delle forme che essa disegna con la terra, qualcosa si insinua. “Ma la mia terra, la mia Sicilia, non ha fiumi; e dal mare è lontana come fosse al centro di un continente.“ Leonardo Sciascia, ”Occhio di capra“, 1984.
Umberto Coa
Sutera
Sutera è un paese della Sicilia centrale in provincia di Caltanissetta. La sua storia è comune ad altri paesi e paesini delle campagne sia Siciliane che di altre parti del mondo: la popolazione è drasticamente diminuita, la vitalità del luogo rallentata. Come ci dice Umberto “la piccola comunità vive isolata in un luogo dove le tracce di un passato ormai perduto si alternano ai segni di un futuro che non è mai completamente arrivato”. E in effetti Sutera appare come un microcosmo che trova poche corrispondenze nel macrocosmo. Una delle poche somiglianze risiede nelle tipologie di persone, nell’umanità che nei volti dei ritratti e nelle pose delle presenze ci fa sentire a loro vicini. Sutera appare nelle fotografie di Umberto come il secondo tempo di un film, vicina a finire. Ma non sarà una fine vera e propria semmai un trasformazione. Ed è proprio sulla trasformazione del luogo che la curiosità del fotografo insiste e dà a lui e a noi spettatori la possibilità di vedere e arricchirci di un’esperienza: “in questa comunità, che apparentemente non aveva nulla da offrire, ho finalmente ritrovato quel sentimento di appartenenza che avevo perduto verso la mia terra di origine”.
Alice Grassi
Blue Imaginary
La Grotta Azzurra è una grotta marina che si trova a Capri. Ninfeo di una villa di epoca romana diviene successivamente nelle credenze popolari luogo abitato da spiriti malvagi per poi tornare, a partire dal 1800, a essere vissuta nuovamente. L’ingresso alla grotta è una fenditura della roccia che filtra la luce e lascia passare solo il colore blu donando alla grotta una caratteristica e fantastica colorazione. La sua storia e le sue caratteristiche hanno fatto si che questo luogo sia stato oggetto di interesse da parte di pittori, fotografi e scrittori. Sono questi i linguaggi che hanno portato Alice a “ripercorrere a ritroso l’immaginario di questa grotta”. L’installazione si compone di 6 light box che attraverso le stratificazioni dei segni ci fanno rivivere le tante vite della grotta e di 4 case di caolino che simboleggiano l’abitare. Gli oggetti dell’installazione convivono grazie alla luce che nel suo accendersi e spegnersi risiginifca la ciclica storia delle scoperte e degli abbandoni che ha caratterizzato la vita della grotta.
Arianna Sanesi
Liminal.
Le fotografie di Liminal ritraggono momenti di vita estiva salentina di un gruppo di ragazzi. In queste immagini come nelle fotografie dei siti archeologici, dove nelle rovine ci pare di percepire la cristallizzazione del tempo e un rimando a ciò che è già stato e che non ha più possibilità di rivivere, le storie di questi giovani sembrano potersi ripetere e rileggere all’infinito, come in una favola. Una metafora forse troppo forte se messa in relazione ai momenti d’estate di un gruppo di ragazzi che dentro hanno la vita davanti, ma dall’esterno pare osservare delle vite al rallentatore la cui esistenza sembra governata da qualcosa di distante: da una cultura non prodotta dal territorio. Arianna li fotografa non senza difficoltà e comunque “dopo il caldo opprimente del mediterraneo, quando finalmente si torna dal mare, o si esce di casa”, ovvero nella frescura di un perpetuo tramonto, in attesa del giorno dopo.
Tony André,
Palmira, 1910.
dall’archivio ICCD, Mibact.
Tony André è stato un viaggiatore filantropo che possedeva il desiderio di comunicare le proprie scoperte e conoscenze. Manuela De Leonardis (Tony André fotografo per diletto agli inizi del ‘900. Mibact, ICCD, Consorzio IDRIA, Mario Adda Editore) ci dice che André “Attingeva alle opere di dotti del passato e del presente, che da poliglotta come era leggeva in lingua originale. Di questo materiale si avvaleva, sia dal punto di vista testuale che iconografico, per le sue conferenze, integrandolo con le immagini di cui era autore.”
Questo modo di operare che definiremmo da fotografo contemporaneo ci fa capire che André è un uomo appassionato e ci fa riflettere sulla figura dell’artista di oggi. Quello che fa André è quindi una forma di reportage senza intermediari. Ovvero André raccoglie e ordina il proprio materiale con dovizia e con la finalità di esporre le sue ricerche attraverso conferenze da egli stesso tenute. Al fine di rendere esaustiva la sua ricerca e di conseguenza la sua esposizione, combina infatti nelle sue presentazioni sia le immagini che egli realizza sia le riproduzioni di disegni e fotografie di altri autori.
È davvero interessante pensare a quest’uomo di cento anni fa che, alla stregua di Humboldt, è una sorta di colto scienziato-viaggiatore che nelle sue esplorazioni fotografiche colleziona materiali appropriandosi delle immagini di altri per riuscire a raccontare con serietà e restituire la certezza dei mondi lontani.
Il fondo costituito presso l’ICCD consta di circa 150 lastre 9×12 cm di vetro realizzate nel 1910 e come detto comprende sia immagini realizzate sul campo che le riproduzioni di altri documenti.
La selezione in mostra ci permette di vedere fotografie di Palmira così come la videro i primi archeologi occidentali.