The project comes from the experience of a place.
A church built after 1965. Imagine visiting it, while you are examining it, you are making a physical measurement of the space that is optical and visual, almost topographical. You understand therefore its volumes, you observe the light sources that make it visible, both the electric light and that which comes through the windows. Now you have reached the altar and while you turn your back to it your gaze reaches the entrance doors. The church is empty: here is the revelation it is right in this moment that the photographic nesting arrives. The church in the mind is filled with people. It is a vision that does not exist before in other photographs but exists photographically in the mind. So here we are to imagine taking up this church built after the Second Vatican Council.
Il progetto nasce dall’esperienza di un luogo.
Una chiesa realizzata dopo il 1965. Immaginate di visitarla, mentre la perlustrate ne state facendo una fisica misurazione dello spazio che è anche ottica e visiva, quasi topografica. Ne comprendete perciò i volumi, ne osservate le fonti luminose che la rendono visibile, sia la luce elettrica che quella che giunge attraverso le finestre. Ora siete giunti innanzi all’altare e mentre gli date le spalle guardate verso i portoni di entrata. Ecco qui che sta per giungere l’annidamento fotografico. La chiesa è vuota: ecco apparire la rivelazione. La chiesa nella mente si riempie di persone. È una visione che non esiste prima in altre fotografie ma esiste fotograficamente nella mente. Eccoci dunque a immaginare di riprendere questa chiesa realizzata dopo il Concilio Vaticano II.
Our work aims to constitute a photographic documentation to form an archive of churches built after Vatican Council II (1962-1965). The photographs we realize aspire to reach a synthesis. They intend to depict the Church as an architectural and human place: indispensable elements of the concept of Church that the New Testament defines as “God’s building.”
After Vatican Council II, churches structures’ of the chancel was completely revolutionized. Our objective and secular modus operandi stands on the threshold of the Bechers’ typological photography dictates and Franco Vaccari’s theories of the “technological unconscious”.
Our camera stands in front of the altar in a central and symmetrical position. It’s operated by a remote control and/or – often – works in time lapse: this procedure turns away the photographer’s instinctual attititude with the result of objectifying the situation, the representation. Positioning the camera versus populum is vital for our project: the device replaces the priest’s gaze to underline our need of seeing and knowing those who Saint Paul calls the Church “living stones”: the churchgoers.
We make a shift of the point of view because, aware that Western culture can’t be separated from what Christianity has done in art and architecture, we have felt the need that our photographs should have become a meta-communicative synthesis.
Our investigation aspires to create an archive of post-conciliar Churches that will become an useful tool aimed at those interested in various disciplines.
Le immagini di questa documentazione fotografica vogliono raggiungere una sintesi, mostrano cioè la chiesa come luogo fisico e architettonico e come adunanza di fedeli. L’elemento umano è un elemento imprescindibile della nostra ricerca anche in considerazione del fatto che la parola chiesa deriva dal greco ekklesia e significa appunto comunità radunata a seguito di una convocazione. In questo senso l’edificio ecclesiastico non va inteso come una mera costruzione in muratura o legno ma come uno spazio fatto di persone in carne ed ossa, di “materiale umano” o – come afferma San Paolo – di “pietre viventi”.
L’architettura delle chiese che sono state recentemente edificate è stata spesso oggetto di critiche, e spesso sono state considerate “strutture di cemento spoglie di riferimenti sacri, spazi freddi dove è difficile raccogliersi in un’intima preghiera”, ma anche “forme spaziali discutibili che allontanano la possibilità di raggiungere nel luogo di culto la semplice quiete dell’anima”.
Dal romanico, al gotico, al barocco la Chiesa e la storia hanno trasformato le forme degli edifici mantenendo sempre vivo il messaggio che l’edificio spirituale e umano, di culto e di preghiera, poteva trasmettere a chi vi accedeva.
La macchina fotografica rimane innanzi all’altare per lungo tempo. Chi entra in chiesa la vede ma non sempre vede i fotografi perchè questa può venire azionata mediante un telecomando o usata in time lapse. La fotocamera è quindi una sorta di occhio elettronico, è un meccanismo a cui è stato dato il comando di registrare un flusso di situazioni.
Questo procedere allontana il momento istintuale del fotografo, cerca di oggettivare il luogo ripreso, lascia spazio all’inconscio tecnologico e ci riporta a una fotografia che è realmente tale perché ci aiuta a scoprire quello che non sappiamo invece che a confermarci in quello che già conosciamo.
Nelle chiese post-conciliari la struttura del presbiterio fu rivoluzionata e ciò comportò uno spostamento del sacerdote, voltato non più verso il tabernacolo e il crocifisso, con le spalle rivolte ai fedeli, ma verso il popolo (versus populum) per “fare il ponte” tra ciò che è spirituale e ciò che è “militante”.
Questo momento in cui il Sacerdote si rivolge ai fedeli è risultato particolarmente importante nella nostra immedesimazione nel progetto fotografico. Posizioniamo infatti la macchina fotografica innanzi all’altare – come se sostituisse lo sguardo del sacerdote puntata verso l’entrata della chiesa inquadrando I fedeli presenti al rito o talvolta ai vespri pomeridiani che precedono l’inizio della Messa.
La sintesi è dunque la fotografia.
Essa nell’insieme delle immagini che compongono il progetto così come in ogni singola immagine accoglie e racconta la chiesa come luogo e spazio architettonico, percepito e inquadrato da un punto di vista inusuale mostrando il lato fisico e spirituale della chiesa ovvero la presenza di coloro che posseggono la fede, il fedeli.
La fotograficità implicita. Andate in Pace. Peirce. Il sapere collaterale. L’utilità.
Vi è una sorta di fotograficità implicita che si nasconde (ma non troppo) nello sguardo e nel pensiero di tutti noi. La fotograficità implicita è una sorta di forma mentis che conduce ad agire in termini fotografici, sia come predisposizione a fotografare, che come ulteriore riflessione sulla metodologia di ripresa e di resa dell’oggetto o della situazione che diventa potenzialmente fotografabile. Prima, questa inclinazione era quasi ad esclusivo appannaggio dei fotografi, adesso, magari con una consapevolezza più frivola, certamente dovuta alla tecnologia a disposizione, questo ulteriore scarto e scatto visuale si è insinuato nel pensiero di tutti. Vi è perciò una sorta di annidamento della fotograficità nella nostra visione del mondo che, in termini spicci, arriva a tradursi nel pensiero di realizzare un’immagine di qualsiasi cosa si reputi anche solo minimamente interessante. In altri termini, il detto annidamento, si manifesta con lo sviluppo di un’attitudine comportamentale volta a inquadrare e realizzare un’immagine, per guardarla e metterla da parte, ma anche per mostrarla e condividerla.
Parlo adesso del lavoro fotografico “Andate in pace” che ha per oggetto la documentazione di interni di chiese postconciliari italiane, riprese dal punto di vista dell’altare durante la cerimonia religiosa, inquadrando l’assemblea riunita. Ne parlo perché la genesi del lavoro, così come la sua realizzazione, contengono una serie di elementi strutturali della fotografia di documentazione contemporanea e perché, nella semplicità e direi spartana estetica delle immagini, sono racchiusi, a mio modo di vedere, importanti contenuti teorici.
In primo luogo il lavoro contiene e rivela una forma di annidamento del fotografico nel pensiero e nel vedere quotidiano. Infatti, l’idea che muove il lavoro prevede un primo momento di riconoscimento cui si affianca un momento di rivelazione; tutto ciò, però, non potrebbe prendere forza se non attraverso quello che Peirce definisce il sapere collaterale. Mi spiego meglio.
Il progetto nasce dall’esperienza di un luogo.
Una chiesa realizzata dopo il 1965. Immaginate di visitarla. Mentre la perlustrate, state facendo una corporea misurazione dello spazio che è allo stesso tempo ottica, visiva, quasi topografica. Ne comprendete perciò i volumi, ne osservate le fonti luminose che la rendono visibile interiormente, discernete la luce elettrica da quella che giunge attraverso le finestre, i materiali che la compongono. Legno, cemento, ferro, marmo. Ora siete giunti innanzi all’altare e, mentre gli date le spalle, guardate verso i portoni di entrata. È qui che sta per giungere l’annidamento fotografico.
La chiesa è vuota: ecco apparire la rivelazione. La chiesa nella mente si riempie di persone. È una visione che quasi non esiste in altre fotografie, è presente in un registro di inquadrature cinematografiche ma esiste fotograficamente nella mente. Eccoci dunque a immaginare di riprendere questa chiesa realizzata dopo il Concilio Vaticano II. Perché ha importanza che la chiesa sia stata realizzata dopo il detto Concilio?
Perché da quel momento il rito cattolico cambia, cambiano le architetture delle chiese, ma soprattutto uno dei dettami conciliari è quello di modificare la posizione del sacerdote che, da questo momento in poi, si indirizzerà verso l’assemblea: lo sguardo del sacerdote, cioè, si volge verso i fedeli anziché verso il Cristo consuetudinariamente posizionato sopra l’altare. Non più dunque le spalle ai fedeli, bensì il volto. È questo un sapere collaterale. Questa operazione di rappresentazione documentale e di sostituzione dello sguardo del sacerdote che guarda l’assemblea riunita, acquista una forza superiore e diversa nel momento in cui veniamo a conoscenza delle motivazioni intellettuali che hanno portato gli autori a realizzare le fotografie. Se si approfondisce ancor di più il contenuto, possiamo giungere a intendere che, all’interno di questa documentazione sperimentale, vi è una sorta di immagine nell’immagine: una metapicture immaginaria che coglie e rivela un lato comunicativo – concettuale del lavoro. In poche parole, lo sguardo del sacerdote, che è dato dalla sostituzione del suo vedere attraverso la ripresa della macchina fotografica, simboleggia la visione che la Chiesa, intesa come istituzione, può avere di se stessa. In questa direzione poi, la documentazione assume un ulteriore significato dato che la chiesa è sì un elemento architettonico ma, l’architettura in sé è un elemento ulteriore rispetto al concetto di Chiesa, cioè di ecclesia, ovvero, di assemblea di persone. Cosicché la chiesa non è un elemento architettonico come in prima istanza la si osserva ma è fatta dai fedeli. Non c’è Chiesa, non c’è rito se non vi sono le persone. Lo sguardo interiore è fondamentale perché accresce la consapevolezza di cosa significhi essere.
Il sapere collaterale è dunque un concetto di enorme importanza in fotografia (e non solo): per capire ciò che mi viene mostrato, ho bisogno di un sapere che spesso ha poco a che vedere con l’oggetto rappresentato. Infatti, come raccolgo dal libro di Roberto Signorini Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce citando Francois Brunet (pag. 236), «I segni sarebbero impotenti a comunicare alcunché se i locutori non avessero una conoscenza indipendente dei loro oggetti, un “sapere già disponibile”.»
Tratto da La Battaglia delle immagini, Postcart 2016
Le fotografie di questo progetto fotografico mostrano una ricognizione delle architetture ecclesiastiche italiane postconciliari, riprese al loro interno. Muovendosi nell’ambito della tradizione documentaria, il fotografo caratterizza in modo originale la propria ricerca attraverso la scelta di impostare la ripresa secondo un canone fisso. Infatti ogni chiesa viene fotografata utlizzando sempre il medesimo punto di vista, quello del sacerdote dall’altare, e viene eseguita in un ben preciso momento, quello della funzione sacra, della riunione dei fedeli.
Nelle chiese post-conciliari la struttura del presbiterio fu rivoluzionata e ciò comportò uno spostamento del sacerdote, voltato non più verso il tabernacolo e il crocifisso, con le spalle rivolte ai fedeli, ma verso il popolo (versus populum) per “fare il ponte” tra ciò che è spirituale e ciò che è “militante”. Il momento in cui il Sacerdote si rivolge ai fedeli è risultato particolarmente importante nell’immedesimazione nel progetto fotografico.
Il risultato è artisticamente inedito ed unisce il valore documentario a un sapore cinematografico: se le vedute architettoniche dell’interno delle chiese sono rigorose, benché ribaltate rispetto al punto di vista abituale, al contempo il corpus del lavoro diviene un’indagine socio-antropologica, una narrazione dell’Italia di oggi e un ritratto della comunità cattolica. Le immagini di questa documentazione fotografica vogliono raggiungere una sintesi, mostrano cioè la chiesa come luogo fisico e architettonico e come adunanza di fedeli. L’elemento umano è un elemento imprescindibile della ricerca anche in considerazione del fatto che la parola chiesa deriva dal greco ekklesia e significa appunto comunità radunata a seguito di una convocazione. In questo senso l’edificio ecclesiastico non va inteso come una mera costruzione in muratura o legno ma come uno spazio fatto di persone in carne ed ossa, di “materiale umano” o – come afferma San Paolo – di “pietre viventi”. La sintesi è dunque la fotografia.
Essa nell’insieme delle immagini che compongono il progetto così come in ogni singola immagine accoglie e racconta la chiesa come luogo e spazio architettonico, percepito e inquadrato da un punto di vista inusuale mostrando il lato fisico e spirituale della chiesa ovvero la presenza di coloro che posseggono la fede, il fedeli.
Sguardo, visione, sintesi.
Una conversazione con Giorgio Barrera e Niccolò Rastrelli
di Daniele De Luigi
Daniele De Luigi: Per capire un progetto fotografico credo sia sempre un ottimo punto di partenza sapere quale ne sia stata la genesi: in quale circostanza è stato concepito, da quali riflessioni è emerso (o da quali discussioni, visto che in questo caso gli autori sono due): quando, insomma, si è affacciata nel vostro pensiero l’idea che informa tutto il lavoro, che di per sé è un’idea semplice.
Giorgio Barrera / Niccolò Rastrelli: Nasce in qualche modo casualmente, in seguito a un comune interesse per l’architettura delle chiese moderne e da una serie di sopralluoghi effettuati presso alcune parrocchie milanesi, il cui scopo era la ricerca di un modo di restituire visivamente gli edifici ecclesiastici. Una delle prime riflessioni è stata quella di comprendere l’importanza della presenza dei fedeli all’interno dello spazio architettonico. Chiesa deriva dal greco ekklesia, significa comunità radunata a seguito di una convocazione. In questo senso l’edificio ecclesiastico va inteso, e quindi nel nostro caso raffigurato, come uno spazio fatto di “materiale umano” o – come afferma San Paolo – di “pietre viventi”. Da questa considerazione è sorta l’idea che caratterizza tutto il lavoro. È effettivamente un’idea semplice che, grazie alla sua immediata intuitività, può rivelare una molteplicità di contenuti. Al fine di mostrare la chiesa come luogo architettonico e corporeo ci siamo prefissati di raggiungere una sintesi.
DDL: Da un certo punto di vista “Andate in pace” appare subito molto legato alla specificità del “mestiere” di fotografo: viene in mente John Szarkowski quando sottolineava che per un fotografo le fonti di apprendimento sono in primo luogo la tecnica e la pratica stessa, la necessità di risolvere concretamente il problema della rappresentazione del soggetto. Questo porta spesso a individuare nuovi punti di vista, come è successo a voi trovandovi nel presbiterio e volgendo lo sguardo verso l’aula. Tuttavia la vostra indagine non era semplicemente sullo spazio, ma sulla relazione tra il luogo di culto e le persone, e qui entra in gioco il tempo. Vi siete resi conto che quel punto di vista era davvero inedito non come vi si presentava in quel frangente, con la chiesa vuota, ma se attuato in un momento differito nel tempo: quello in cui, da quella posizione, il sacerdote vede la comunità dei fedeli.
GB/NR: Dalle perlustrazioni preliminari che abbiamo realizzato è emersa la necessità di trovare un punto di vista. Un punto di vista che soggiacesse però ad alcune priorità intellettuali che ci siamo dati: oggettivazione del contesto, serialità delle riprese, sintesi e utilità del lavoro, fotografia come traccia, ipotesi di creazione di un archivio. Il Concilio Vaticano II rivoluzionò la struttura del presbiterio: ciò comportò uno spostamento del sacerdote, voltato non più verso il tabernacolo e il crocifisso, con le spalle rivolte ai fedeli, ma verso il popolo (versus populum) per “fare il ponte” tra ciò che è spirituale e ciò che è “militante”. Il momento in cui il Sacerdote si rivolge ai fedeli è il fondamento della nostra immedesimazione nell’atto fotografico perché ci permette di mostrare la chiesa secondo i nostri intendimenti come elemento architettonico e corporeo. Il passo successivo all’intuizione che caratterizza il lavoro è la sua pre-visualizzazione: lo scarto temporale tra questo momento e la realizzazione dell’immagine consiste in effetti in un’anticipazione data dalla conoscenza del linguaggio. Durante la predisposizione del nostro agire sia pratico che teorico ci è sicuramente servita da bussola una frase di Franco Vaccari tratta da Fotografia e inconscio tecnologico, quando dice che una fotografia è realmente tale perché “ci aiuta a scoprire quello che non sappiamo invece che confermarci in quello che già conosciamo”.
DDL: Questa possibilità della fotografia di essere strumento di conoscenza credo sia nodale rispetto al suo ruolo nella cultura contemporanea. Voi parlate di pre-visualizzazione, che ha sì a che fare con il vedere, con l’osservazione del visibile, ma ancor più, forse, con la visione, che è qualcosa che si fonda sullo sguardo ma non si limita ad esso. In essa si crea un rapporto tra ciò che vediamo concretamente e ciò che conosciamo astrattamente, da cui scaturisce un’immagine prima di tutto mentale sia pur radicata nella realtà. A renderla possibile è la conoscenza del linguaggio, come dite, ma anche della storia, il sapere.
GB/NR: La visione non è un’esclusività dello sguardo. Potremmo effettivamente dire che essa è il risultato di una mediazione tra la concretezza del visibile e l’astrattezza della conoscenza, e che perciò le immagini di questo lavoro prescindono dalla visione intesa come fantasticheria. Queste fotografie infatti nascono attraverso un’ispezione della mente, la nostra ne è stata dunque una traduzione. Il risultato visivo è la dimostrazione di un teorema: la visione non è solo sguardo, ma una sequenza di passaggi logici che attraverso delle conoscenze già acquisite (la storia, il linguaggio) ci permette di introdurci a guardare un quadro d’insieme che è singolare. È vero che il lavoro prende le mosse dai dettami del Concilio Vaticano II e che senza conoscere questo dato forse non è possibile comprendere il lavoro nella sua interezza – ci riferiamo all’atto e alla riflessione fotografici che stanno a monte – però, è vero anche che l’immagine di per sé ritrae la comunità dei fedeli cristiani nel nostro Paese in un dato periodo storico. In questo modo la fotografia rivela o crea una nuova conoscenza sia nella manifestazione dell’oggetto inquadrato che, in un successivo ed eventuale approfondimento, sulla pratica adottata. In qualche modo queste immagini esistevano già prima che noi le realizzassimo. La vista di insieme dei fedeli dall’altare appare al sacerdote. L’immagine del sacerdote che guarda al suo popolo non può essere sfuggita ai Vescovi che stabilirono i principi di rinnovamento ecumenici. Questo sguardo interiore della Chiesa rivolto alle sue stesse fondamenta è pertanto già presente. In questo senso, e nel nostro caso, la fotografia non nasce direttamente da una presa di coscienza visiva della realtà, ma primariamente da una forma di custodia delle riflessioni sulla portata dei contenuti della realtà stessa; poi, dalla creazione di un foglio bianco (una tabula rasa) sul quale registrare e scrivere una serie di tesi, elementi e concetti che derivano sia dall’esperienza pratica che dalla conoscenza; infine dal porre in essere tale procedimento secondo una determinata metodologia. Di fondo ognuno vede e spesso continua a vedere ciò che sa, invertire questa tendenza è proprio uno dei ruoli dell’arte.
DDL: Prima avete elencato alcuni aspetti tecnico-stilistici del vostro modus operandi, definendoli delle “priorità intellettuali” che vi siete poste: le trovo molto significative perché consentono di individuare le radici del vostro lavoro. Di fatto avete mascherato l’atto creativo individuale simulando uno sguardo quanto più possibile anonimo, meccanico e oggettivo; avete mirato a creare immagini che avessero un carattere di chiarezza e che potessero avere in futuro un valore di testimonianza storica, sociale e culturale che superi l’attribuzione di artisticità. Tanto nelle intenzioni quanto nelle scelte stilistiche è evidente che vi ponete nel solco di chi, lungo tutto il Novecento, ha fatto della fotografia documentaria un esercizio intellettuale. Tuttavia qui coesistono diversi livelli d’indagine che moltiplicano i modelli di riferimento: c’è l’indagine architettonica, estremamente rigorosa, ma anche quella demoetnoantropologica, che esamina alcune comunità nel loro carattere locale, religioso, sociale.
GB/NR: È proprio così, abbiamo fatto una scelta di campo ben definita e non ci ha minimamente interessato adottare soluzioni che fossero indirizzate a soddisfare il lato estetico dell’immagine. Il nostro linguaggio è chiaro, indubitabile e così sono le fotografie di questo lavoro. Probabilmente il ritmico succedersi della ritualità cerimoniale, anche inconsciamente, è possibile che ci abbia suggerito di lavorare seguendo i criteri che abbiamo adottato. Le immagini sono realizzate inquadrando una porzione considerevole dell’architettura ecclesiastica, all’interno di esse i fedeli: la prima parte della realizzazione prevede un’accurata scelta del posizionamento della macchina, la seconda, quello dello scatto vero e proprio, lascia spazio al caso, all’inconscio ottico. L’insieme della pratica e delle priorità che abbiamo definito crea un corpus che possiamo definire una raccolta tipologica. Queste scelte sicuramente sortiscono l’effetto di celare l’autoreferenzialità dell’arte, ma essa secondo noi, dietro il velo di un approccio tipicamente documentario, può essere rilevata proprio nell’atto fotografico.
DDL: L’ICCD conserva un patrimonio di milioni di fotografie che riguarda principalmente i beni artistici e culturali d’Italia. Abbiamo deciso insieme di selezionare da questi archivi alcune decine di fotografie, realizzate tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, che documentano interni di chiese edificate secondo i dettami del Concilio di Trento, e di esporle come “introduzione” alla mostra. L’idea è che si potesse istituire un dialogo utile a riconsiderare significato e valore delle fotografie presenti in Istituto e a suggerire ulteriori chiavi di lettura delle vostre immagini. In quelle una cosa che si nota è la tentazione talvolta del fotografo di utilizzare la luce che entra dalle vetrate per evidenziare la relazione tra il divino e l’edificio sacro che dovrebbe avvicinare ad esso i fedeli, mentre per questi ultimi c’è un sostanziale disinteresse, se non come misura dello spazio architettonico. Che riflessioni ha stimolato in voi questa ricerca e lo studio di queste fotografie?
GB/NR: Fare ricerca nell’archivio è stata un’esperienza molto formativa, ci ha portato ad immedesimarci nel vedere così come nell’operare dei fotografi che hanno realizzato le immagini: il loro pensare lo spazio architettonico. Scoprire delle scelte per porre in risalto determinati elementi dell’architettura, forzare l’inquadratura per acquisire un punto luminoso, inquadrare forse per errore le sedie ammassate in un angolo della chiesa in modo da poter mostrare il pavimento. Priorità insomma. Un raffronto con il nostro metodo di lavoro è venuto naturale. In effetti le fotografie che abbiamo selezionato dall’archivio dell’ICCD sono fotografie realizzate da fotografi ai quali è stato dato l’incarico di documentare un bene architettonico. Ciò che interessa il committente è proprio la necessità di inventariare, di conoscere, di avere una prova e una testimonianza visive dell’esistenza di un dato bene. Questa tipologia di immagine viene realizzata e successivamente osservata proprio con quello specifico intento e per quella specifica funzione. Il nostro progetto è “autocommissionato” e senza dubbio ciò ci ha resi liberi di impostare il lavoro nei modi che abbiamo ritenuto più opportuni, ma rimane evidente che l’atteggiamento del fotografo contemporaneo tende a porre molto del suo pensiero nelle immagini al fine di dargli un “taglio” personale. Crediamo sia proprio questo che emerge chiaramente dal dialogo di queste fotografie: una devozione, la nostra, impostata verso una fotografia documentaria che guarda l’individuo come elemento e volto del tempo all’interno di uno spazio voluto dalla modernità, che si raffronta con la bellezza delle tonalità dei grigi e la monumentalità della storia.
DDL: Dalla ripetuta osservazione della liturgia durante le riprese effettuate nelle diverse chiese è nata a un certo punto l’idea di realizzare dei video. In essi avete focalizzato la vostra attenzione sui singoli, da una parte facendo emergere il modo soggettivo in cui ciascuno di loro partecipa all’esecuzione del rito, dall’altra sottolineando la resa della propria individualità cui il rito stesso induce a favore della comunione in un corpo collettivo. C’è una particolare funzione complementare che avete riposto nei video rispetto alle fotografie?
GB/NR: Non molto tempo dopo aver iniziato le riprese fotografiche abbiamo considerato che il lavoro avrebbe trovato una forma di completamento aggiungendo movimento alla staticità e alla iconicità delle riprese fotografiche. Ci siamo quindi trovati a definire un sistema di rappresentazione filmica che ben dialogasse con l’immagine fissa. La nostra priorità non è stata risolvere una problematica di punto di vista o andare a porre l’accento su ciò che l’immagine fotografica aveva già risolto, ma quella di integrare la nostra fotografia oggettiva e sintetica attraverso un contrappunto emozionale che solo l’immagine in movimento ci poteva regalare. Il video doveva quindi darci la possibilità di indagare un singolo individuo o una porzione di individui come parti, emblemi di una data comunità con la conseguenza che lo spazio architettonico nei filmati avrebbe avuto una funzione secondaria rispetto quella emotiva che abbiamo deciso di riservarle. Sicuramente, durante le riprese fotografiche la nostra presenza all’interno della chiesa ci ha dato la possibilità di vedere i fedeli prima e durante le celebrazioni e notare come ogni individuo all’interno della comunità mostrava la sua singolarità. I canti, i silenzi, le preghiere corali, i colpi di tosse che rimbombano su per le altezze della chiesa, le strette di mano, la comunione vengono registrati dalla presenza della nostra videocamera sempre posizionata nei pressi del presbiterio. I microfoni per la registrazione dell’audio, posti invece fra i fedeli, sottolineano che è proprio questo lo spazio di indagine a cui il nostro approfondimento è stato rivolto.
Gaze, Vision, Synthesis.
A Conversation with Giorgio Barrera and Niccolò Rastrelli
by Daniele De Luigi
Daniele De Luigi: In order to understand a photographic project I think that it is always a good starting point to know what the origins were: in what circumstances was it conceived, what were the reflections behind it (or discussions, seeing as there are two artists in this case): in other words, when did the idea, in itself a simple one, that informs the entire work come to mind?
Giorgio Barrera / Niccolò Rastrelli: It came out in a rather casual way, as part of our common interest in the architecture of modern churches and after a series of reconnaissance visits made to certain Milanese parish churches, where our goal was to see how we could visually give back these religious buildings. One of our first reflections was to understand the importance of the church-goers within the architectonic space. The Greek word for church, Ekklesia, means a community gathered together after being convocated. It is with this sense that religious buildings are to be understood, and in our case, they are shown as a space made of “human material” or – as affirmed by Saint Paul – of “living stones”. It was from this consideration that the idea which informs this whole project came out. Effectively, it is a simple idea, given its immediate intuitiveness, that can reveal a multiplicity of contents. In order to show the church as a bodily and architectonic place we established that we would reach a synthesis.
DDL: From a certain point of view, Andate in pace (Go in Peace) seems strongly linked to the specifics of the photographer’s “trade”: in fact, I am reminded of John Szarkowski when he emphasizes the fact that a photographer’s sources of learning are firstly technique and putting it into practice, and the need to solve clearly the problem of presenting the subject. This often leads to new points of views, as it did with you when you looked from the chancel towards the entrance. Nonetheless, your investigation was not only about the space itself, it was about the relationships between a place of worship and its people, and here time is called into play. You realized that your point of view was new actually not so much as it appeared to you in that particular situation, while the church was empty, but by doing so in a later moment: when the priest, from the position, looks at his community of believers.
GB/NR: From those first reconnaisance missions we saw that it was necessary to find a certain point of view. A point of view that is subject to intellectual priorities that we gave ourselves: the objectifying of the context, the seriality of the takes , a synthesis and the usefulness of the work, photography as a trace, and the idea of creating an archive. The Second Vatican Council revolutionized the structure of the presbytery. It led to moving the priest so he was no longer looking towards the tabernacle and the cross, with his back to the congregation, but towards the people (versus populum) in order to “create a bridge” between everything that is spiritual and that which is “militant”. The moment in which the priest addresses the congregation is the crucial point of our empathetic identification in the photographic act because it leads to showing the church according to our understanding of its corporeal and architectonic elements. The following step to the intuition that characterizes the work is its previsualization. In effect, the different moment in time translates into a type of anticipation that is provided by the knowledge of the language. During both our technical and theoretical preparations we were guided by a thought from Franco Vaccari’s Fotografia e inconscio tecnologico [Photography and Technological Unconcious] when he says that a photograph can be considered really as such because «it helps us to discover what we don’t know instead of confirming what we already know».
DDL: This possibility of photography to be an instrument of knowledge is, I think, crucial with respect to its role in contemporary culture. You speak of previsualization, which of course has to do with seeing, with the observation of the visibile, but even more, perhaps, it has to do with vision, which is something that the gaze is based on, but not limited by it. This creates a relationship between what we see concretely and what we know abstractly, from which a mental image comes out first of all even if it is rooted in reality. What makes this possible is the knowledge of the language, as you call it, but also of history and of knowledge.
GB/NR: Vision does not exclusively belong to the gaze. We could effectively say that it is the result of a mediation of the concreteness of the visibile and the abstract nature of knowledge, and for this reason the pictures in this work don’t have their origins in a type of vision that is of a fantastical nature. In fact, these photographs come out of an investigation of the mind, and our investigation is, therefore, a translation. The resulting vision is the demonstration of a theorem: vision is not only gaze but a sequence of logical steps that from already acquired knowledge (history, the language) allowes everybody to look at an overall picture together which is unique. It is true that this work is inspired by Vatican Council II and if one doesn’t know this perhaps it is not possible to understand the work in its entirety – we are referring to the informing photographic act and reflection. However, it is also true that the picture in itself portrays the community of Christiam believers in our country at a certain historical moment. In this way, photography reveals and creates new knowledge not only of the framed object but also of the practices used in a successive phase of in-depth investigation. These pictures somehow existed even before we created them. The view of the entire congregation as it appears to the priest from the altar. The picture of the priest who is looking at his people must have been in the minds of those bishops who created the principles of ecumenical renewal. The ecclesiastical inner gaze directed to its very foundations is therefore already present. In this sense (and in our case) photography does not develop directly out of a visual awareness of reality but from a form of cautionary safekeeping of the reflections about the bringing about of the contents of reality itself; it then develops out of the creation of blank page (tabula rasa) where a series of ideas, elements and concepts can be unfolded and which come from practical experience and knowledge and imbue the proceedings with a definite method. In reality, every one sees and continues to see what one knows, and inverting this tendency is one of the very roles of art.
DDL: Beforehand you listed certain technical and stylistic aspects of your modus operandi, calling them an “intellectual priority” that you gave yourself: I think they are very meaningful because they show us the roots of your work. You have very clearly disguised the individual creative act by simulating as an anonymous a gaze as possible, one that is mechanical and objective; you aimed to create pictures that seemingly have clear features and that could, in the future, provide testimony to historical, social and cultural values that go beyond artistic attributions. In both your intentions and your stylistic choices, it is clear that you set yourself alongside those who conducted documentary photography during the entire 20th century as an intellectual exercise. Nonetheless, here there are different co-existing levels of investigation that propagate numerous references: there is an extremely rigorous architectural research, but there is also a sociological and anthropological one as well that examines certain communities from the standpoint of their local, religious and social characteristics.
GB/NR: It is exactly like that: we chose our field of focus very clearly and sometimes we had no interest in adopting solutions to enhance the aesthetic side of the photograph. Our language is clear, indubitable just as our photographs are. The rhythms of the ritualistic ceremonies probably informed us even unconsciously so as to follow the criteria we had adopted. The pictures were created by framing large-scale views of the religious ediface, with the congregation of believers inside: the first part of the work required a fixed positioning of the camera, while the second part, those of true and proper shots leave the space to randomness, to the “optical unconciousness”. The combination of practice and of the priorities that we established create a corpus that we can call a “typological” collection. These choices surely come from the effect of hiding the autoreferentiality of art, but this in our opinion, behind the veil of the typical documentary approach, can be revealed right in the very photographic act.
DDL: The ICCD has a historical archive of millions of photographs which mainly depict Italy’s cultural and artistic heritage. We decided to choose a few dozen photographs of church interiors built on the principles of the Trent Council and that were taken between the end of the 19th century and the first half of the 20th century, as an “introduction” to the show. The idea being that to see if we could develop a useful dialogue that would help reconsider the meaning and value of the Institute’s photographs and to suggest further keys to interpreting your pictures. In the earlier photos you can sometimes see the temptation of the photographer to use the light entering the windows to highlight the relationship between the divine and the holy building which should bring believers closer to the former, whereas in these later photographs, there is almost no interest in using this effect, except sometimes to give an idea of the size of the architectonic space. What reflections were you stimulated by in your research and study for these photographs?
GB/NR: Conducting research in the archive was a real learning experience and it led us to empathize with those photographers in their working methods, in the way they thought about architectonic spaces. Discovering choices in order to emphasize certain elements of the architecture, overly emphasizing a framing in order to get a more luminous spot, or framing perhaps in error stacks of chairs in a corner of a church in order to show the flooring: in short, priorities. A comparison to our work was inevitable. In fact, the photographs that we chose from the ICCD archive are photographs taken by photographers who were charged with documenting a work of architectonic heritage. What interests a commissioning party (of a photograph) is this very need to do an inventory, to know, to have proof and visual testimony of a given piece of heritage. This type of photograph was taken and afterwards observed specifically for its specific intent and function. Our project was “self-commissioned” and this indubitably allowed us to decide freely on how to carry out our work as best as we thought possible, but it is obvious that there the attitude of the modern photographer tends to emphasize his own thoughts in his photographs so as to give them a personal touch. We believe that it is exactly this that comes out in the dialogue between these photos: there is devotion, ours, that is directed at documentary photography, one that sees an individual as an element and an image of time within a space created by modernity, that confronts the beauty of the grey tones and the monumental nature of history.
DDL: From the repeated observation of the religious service during the taking of the photographs in the different churches the idea of a video emerged at a certain point. In these you have focused your attention on single individuals, so that on the one hand the subjective way in which each one of them participates in the various rituals comes out, while on the other hand you underline their renouncement of single identities to a greater collective body. Is there a specific complementary function that you answered in the videos with respect to the photographs?
GB/NR: Not long after having started to take the photographs we thought that the work would be more complete through the addition of movement to the static and iconic nature of the photographs. Therefore, we found ourselves defining a system of filmic images that would go together with the fixed images. Our priority was not to resolve problems of a point of view or emphasize what was already apparent in the photographs, but to integrate our objective and synthetic photographs with an emotional counterpoint that only moving images could give us. The video was, therefore, used to provide us with the opportunity of investigating single individuals or a portion of individuals as parts and emblems of a given community, with the consequence that the architectonic space in the films was to have a secondary function with respect to an emotional one and that we decided to give them. During the taking of the photographs, our presence within the church surely provided us with the opportunity to see members of the congregation before and during the religious services and to see how each individual showed his own individuality within the collective of the community. The chanting, the silences, the choral prayers, the coughing that reverberated off of the heights of the church, the handshakes, and communion were all recorded by the presence of our camera that was always positioned near the presbytery. The microphones to record audio were placed among the congregation so as to emphasize the very space of our investigations where our in-depth research was aimed.
Un documento utile
Non c’è cassetto del vasto archivio fotografico dell’ICCD dove non siano contenute fotografie di chiese. Le chiese come luoghi privilegiati di sperimentazione dei linguaggi architettonici e come scrigni di opere d’arte, soggetti quindi largamente rappresentati nell’opera capillare di documentazione del patrimonio culturale italiano. Dunque è evidente la prossimità del progetto fotografico Andate in pace di Giorgio Barrera e Niccolò Rastrelli con la lunga tradizione documentaria che l’Istituto rappresenta e testimonia. E come spesso accade, ogni progetto di ricerca aggiunge altri livelli di pensiero che interagiscono con quanto via via si consolida; tanto più in un archivio, che vive di continue relazioni e rimandi.
Se è pur vero che la ricognizione fotografica svolta da Barrera e Rastrelli sulle chiese realizzate dopo la riforma liturgica del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), costituisce un “aggiornamento” cronologico della documentazione del patrimonio chiesastico, già dettagliatamente indagato nel passato e quindi abbondantemente presente negli archivi fotografici storici, è altrettanto vero che lo scarto operato dagli autori è significativo, ed è proprio su questo che si è concentrato il nostro d’interesse.
Stile/funzione, identità/luogo: su questi due binomi ruota la ricerca di Barrera e Rastrelli; la riflessione necessita di uno sguardo attento perché tutti i significati vanno ricercati nella foto stessa e la didascalia in questo caso non fornisce la chiave di lettura.
Lo stile documentario è il campo d’azione: la mano del fotografo è pressoché invisibile (il fotografo stesso è invisibile, dal momento che gli scatti avvengono a distanza), il punto di vista è prefissato, la luce raramente è artificiale e alla fine verrà scelto un solo scatto per ogni chiesa. Il differimento tra sguardo e visione è evidente, e bene lo spiega Daniele De Luigi nella conversazione con gli autori. Possiamo dunque dire che ci troviamo di fronte ancora a fotografia di documentazione? Possiamo affermare che esiste davvero continuità tra le loro foto e quelle provenienti dall’archivio storico dell’ICCD che aprono la mostra?
La risposta l’hanno data gli stessi autori, dichiarando senza esitazione di voler produrre un documento utile. La funzione di una fotografia è quindi indipendente dallo “stile” del fotografo; certamente questo non rappresenta una novità, anche se periodicamente il dibattito a riguardo si rianima. E queste foto sono indubbiamente utili, anche, e forse proprio, per la selettività dello sguardo: un solo punto di vista governa tutto il progetto. Un’auto-limitazione che diviene un moltiplicatore di significati. Non può sfuggire infatti che le riprese da un medesimo punto focale, che potrebbe non essere quello privilegiato immaginato dall’architetto, costituiscono una sorta di metro concettuale (come le stadie che i fotografi d’un tempo mettevano sulle facciate delle chiese), un elemento di misura della profondità fisica e formale delle diverse chiese che mette in evidenza la qualità stessa dello spazio architettonico. Senza finzione, trattandosi di un punto di vista reale, quello del sacerdote sull’altare, anche se non necessariamente il più comune.
Ma c’è anche un’altra dimensione che le fotografie di Andate in pace pongono all’attenzione, tanto più se confrontate con le foto storiche selezionate dagli archivi dell’ICCD. Foto storiche che avevano il compito di rappresentare primariamente e senza ambiguità l’architettura, non prevedendo assolutamente la presenza dei fedeli, quasi nemmeno degli arredi mobili, con la funzione di documentare lo spazio architettonico ritratto dal miglior punto di vista che il fotografo sapesse individuare. Gli elementi identitari vanno cercati con molta pazienza nei bordi dell’inquadratura, nei pochi segni che la liturgia viva e la devozione hanno lasciato nello spazio: un lumino, un ex voto, un crocefisso, un paramento. Non luoghi, quindi, ma spazi. Le foto di Barrera e Rastrelli invece documentano l’ecclesia, la comunità dei fedeli che si riunisce, lì in quel luogo, quel giorno, a quell’ora. Non spazio, quindi, ma luogo. Anche se talvolta l’identità della comunità riunita fa fatica a emergere, perché lo spazio progettato costringe il popolo dei fedeli ad aggrapparsi e arrotolarsi attorno a pavimentazioni, pilastri, aggetti, vetrate, soffitti che gridano una loro propria identità a dispetto di qualsiasi altra identità.
Le fotografie di questo progetto, come nell’uso ormai diffuso, sono note già da tempo attraverso il web. Acquisiscono ora una dimensione museale, che mi auguro potrà contribuire a una discussione tanto sulla funzione attuale della fotografia documentaria quanto sul rapporto tra architettura e liturgia; rapporto che forse deve trovare ancora nella contemporaneità un suo pieno compimento. Saranno poi acquisite all’archivio dell’ICCD, con il quale hanno interagito senza preconcetti, dove andranno a sedimentare nuovi strati di significato, aprendo occasioni di ri-lettura della fotografia storica e da questa forse prendendo nuovi spunti per la re-interpretazione di sé.
Laura Moro, direttore dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione
L’arte è ritornata al tempio, l’artista ha tirato fuori, dallo scaffale polveroso dove l’aveva relegato, la Bibbia e si è riavviato lungo le strade della contemporaneità, riscoprendo il simbolo, la narrazione, la parabola sacrale.
Un esempio è l’architettura che ha visto tanti maestri di fama mondiale cimentarsi nel pensare oggi lo spazio sacro. La fatica di questo incontro, come afferma il Cardinal Ravasi, “è spesso dovuta al fatto che non si compie un pieno dialogo tra architettura e liturgia, tra istanze formali estetiche ed esigenze funzionali sacre, tra la stessa struttura architettonica e il necessario ‘arredo artistico, essendo appunto l’immagine una componente capitale nel culto cristiano”.
La mostra fotografica “Andate in pace”, progetto inedito dei fotografi Giorgio Barrera e Niccolò Rastrelli è un luogo straordinario di scoperta e vicinanza con le cose del mondo, perché come ha scritto Susan Sontag “fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa” e così riuscire a sperimentare la mappa delle relazioni e delle corrispondenze che accadono tra immagini, oggetti, sentimenti e su cui la nostra mente non può che incedere piacevolmente con una scelta d’empatia e di vero coinvolgimento.
Questa ricerca fotografica è prima di tutto un’indagine approfondita dove la pellicola e la camera oscura finiscono con lo svolgere il ruolo di un laboratorio fotografico tecnologicamente attrezzato capace di restituirci una lettura dell’architettura sacra che i nostri occhi da soli non avrebbero saputo eseguire.
Una lettura che ci consegna un monito: dobbiamo imparare a guardare, a osservare, a prestare attenzione a quel che ci circonda e che troppe volte viene dato per scontato.
Aldo Colella
Presidente Visioni Future
This work was granted with a honorable mention from the Museum of Humanity, selected as a finalist at the Sony World Photography Awards and at the Premio Fabbri per le arti contemporanee.