L’immagine in home page è di Luca.Bortolotti, quella qui sopra di Anna Sagramola
Anatomia e dinamica di un territorio è un progetto di formazione e ricerca degli studenti-fotografi del Bauer di Milano da me condotto. Interesserà la Valle del Boite (BL) fino al 2026 con la finalità di realizzare uno studio del paesaggio fisico, culturale, sociale e umano, in trasformazione. Infatti, in occasione delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, questo territorio cadorino attraversato dalla Statale di Alemagna sarà interessato da una serie di interventi infrastrutturali. Concepito come un lavoro collettivo e condiviso capace di generare relazioni e mostrare l’identità dei luoghi, il progetto si inserisce in un più ampio contesto multidisciplinare di valorizzazione e rigenerazione urbana, artistico, culturale e scientifico e ha come partner territoriali, Afol Metropolitana, Fondazione I-Crea, il Comune di San Vito di Cadore, Dolomiti Contemporanee e il Dipartimento TeSAF dell’Università di Padova.
Anatomy and dynamics of a territory is a training and research project of the student-photographers of the Bauer Photography School in Milan that I conduct. It will involve the Valle del Boite (BL) until 2026 with the aim of carrying out a study of the physical, cultural, social and human landscape, in transformation. In fact, on the occasion of the Milan-Cortina 2026 Winter Olympics, this Cadore area crossed by the Alemagna state road will be affected by a series of infrastructural interventions. Conceived as a collective and shared work capable of generating relationships and showing the identity of places, the project is part of a broader multidisciplinary context of urban, artistic, cultural and scientific enhancement and regeneration and has as territorial partners, Afol Metropolitana, the Municipality of San Vito di Cadore, Dolomiti Contemporanee and the TeSAF Department of the University of Padua.
Questa pagina comprende tre edizioni dei seminari che si sono svolte nel 2022, 2023 e 2024
ANNO 2024
2024. Storia, tempo, paesaggio.
Sicuramente il tema che trasversalmente attraversa questi seminari è il tempo. Nonostante sia un tema fondamentale e persistente che attraversa tutta la storia della filosofia, questa mia affermazione potrebbe farlo recepire, di primo acchito, come un approccio un po’ vago, troppo generico. Invece, questa tematica, che si è fortunatamente insinuata nella nostra analisi territoriale, è proprio il risultato della perseveranza nel nostro seguire la Valle del Boite e i suoi mutamenti in questi anni e, soprattutto, discende dal fatto che quest’anno una parte della nostra ricerca ha preso le mosse da un’analisi del territorio in chiave geologica e geomorfologica.
Il primo giorno della nostra permanenza è stato infatti dedicato ad un importante ed illuminante incontro con il geologo Emiliano Oddone, fondatore di Dolomiti Project, una società che nel 2009 ha contribuito a far riconoscere le Dolomiti quale Patrimonio Mondiale Unesco: le Dolomiti, ovvero, un bene naturale caratterizzato da particolarità geologiche e paesaggistiche uniche.
La nuova presa di coscienza ci ha fatto vivere e guardare al territorio con tutt’altri occhi1, citazione che ripercorre e trasla, nell’osservare arricchito di nuove conoscenze, i significati espressi dalla celebre frase da Moholy-Nagy che considerava le nuove arti – fotografia e cinema – quali enti capaci di generare nuovi immaginari e nuove modalità di lettura del reale.
La scienza che studia i processi evolutivi del nostro pianeta ci ha rivelato e fatto prendere coscienza di questo impressionante e monumentale scenario le cui vette, un tempo lontano e ciclicamente, furono isole. A questa dimensione che abbraccia centinaia di milioni dei nostri anni, a questa magnifica eternità viva ed in paziente divenire, lo abbiamo chiaramente e senza appelli compreso, è necessario offrire ulteriore rispetto.
In contrapposizione, ma anche in concomitanza, a questo lento incedere biologico e bioritmico della Terra ci troviamo dinanzi ai cantieri, adesso operativi, necessari per portare a termine le opere infrastrutturali programmate. Il cantherius, da cui la parola cantiere deriva, lo accennavo nel precedente volume, era il nome latino del cavallo castrato che, divenuto più docile da tale amputazione, veniva utilizzato dagli antichi romani nei luoghi in cui si costruiva. È innegabile che in questi anni di documentazione e lettura del territorio li abbiamo attesi ed è altresì innegabile il fatto che il procastinarsi del loro inizio, se da una parte ci ha reso impazienti e ci ha permesso di conoscere vari aspetti che riguardano questo paesaggio, dall’altra, ci rendiamo ben conto che le operazioni debbano procedere molto velocemente in quanto l’Olimpiade si avvicina rapidamente, così come, evidentemente, la scadenza dei lavori deliberati.
La fotografia, si sa bene, è legata al concetto di tempo da un legame saldo e imprescindibile, che abbraccia questioni tecniche, estetiche e teoriche. Dalle fotografie della guerra di Crimea di Roger Fenton realizzate nel 1855 delle quali è iconica La valle dell’ombra della morte (Valley of the Shadow of Death), a quelle fotodinamiche futuriste di Bragaglia dei primi del secolo scorso, che discendono dalla cronofotografia ottocentesca di Étienne Jules Marey, alla notissima fotografia di Josef Koudelka della vista di Piazza San Venceslao a Praga del 1968, alla serie composta da tredici fotografie e intitolata “Un minuto di fotografia” di Franco Vimercati realizzata nel 1974, alla cruda fotografia del volto di una anziana donna appartenente alla serie “Ninna Nanna” (1985/87) realizzata da Mario Giacomelli, fino a giungere alle più recenti ricostruzioni miniate della seconda guerra mondiale di Paolo Ventura, ricaviamo alcuni esempi di questa stretta relazione. Qualsiasi immagine fotografica, anche la più astratta o messa in scena non riesce a sottrarsi alla decostruzione dello spazio-tempo posto in un’inquadratura generata dalla fotografia. L’inquadratura, quale spazio, è un ambiente di misurazione in cui il fattore tempo è inevitabile e dove esso assume coniugazioni nuove, diverse.
La decostruzione fotografica incasella i processi, li annota e li studia rendendoli disponibili. In questo risvolto esiste il pensiero di chi guarda, formato dai nessi di cui è capace, dall’immaginario che lo riguarda e dalla propria interpretazione: azioni queste che divengono atti e che conducono verso un’ulteriore consapevolezza verso il nostro lavoro pluriennale (ed in questo in particolare), ovvero che è proprio il rapporto fra uomo e ambiente a venire studiato, sottolineato. È un rapporto che interseca linee di tempo differenti, seppure destinate a convivere. Le necessità dell’uomo sono variegate e la fenomenologia delle sue intenzioni diventa visibile, appare cioè nella realtà e spesso vi resiste per un certo tempo. Di questo aspetto, in particolare del territorio e del paesaggio quale sito archeologico in divenire, ho parlato nel testo del volume dedicato ai seminari tenutisi l’anno passato ma la direzione che ho intrapreso in questo scritto ci porta a questioni che vanno oltre ciò che pensiamo come arcaico: le Dolomiti si sono formate oltre duecento milioni di anni fa grazie alla presenza e alla stratificazione di coralli, di alghe e batteri i cui fenomeni possiamo vedere e ammirare oggi.
Ciò che vediamo è dunque storia in divenire è geomorfologia che sia affianca alla geografia, alla cartografia, e quello che abbiamo fatto quest’anno è porre questi mondi in relazione al ruolo dell’uomo quale trasformatore ma anche scultore, non sempre attento, della superficie del pianeta.
Storicamente la fotografia nasce legata alla rappresentazione dei luoghi, nel 1835 Henry Fox Talbot affermava che il disegno fotografico sebbene non possa sostituire quello vero e proprio, possiede qualità nuove rispetto alla tecnica pittorica perché può dare più rappresentazioni e più dettagli di quanto un uomo riesca a rilevare col suo solo sguardo, garantendo peraltro una pressoché perfetta descrizione del reale.
La Mission Héliographique, che può essere considerata la prima campagna fotografica dotata di una certa progettualità, iniziò nel 1851 grazie alla presa di consapevolezza del governo francese del valore del patrimonio storico costituito dai beni culturali. La Commissione dei Monumenti Storici incaricò cinque fotografi e diede loro il compito di documentare, in tutta la Francia, i monumenti che necessitavano di restauro. Fra questi c’erano Hyppolite Bayard2, il cui lavoro non fu mai ritrovato e Édouard Baldus, un pittore che prima del 1851 non aveva praticamente mai realizzato fotografie. In un certo senso si trattava quindi di una campagna di salvaguardia del patrimonio culturale, in questo caso monumentale, presente nel territorio francese. Anche noi, a nostro modo, con questi seminari ci occupiamo di patrimonio, di un patrimonio che è territorio, che è ambiente e lo facciamo attraverso una riflessione che osserva e legge la sua propria estetica quale mezzo di conoscenza. Questo intento che diviene procedura eleva il nostro lavoro quasi al ruolo di un impegno civico e sociale che trova la sua forma, non tanto in una narrazione, quanto proprio all’interno dello studio dell’agire dell’uomo contemporaneo.
La medesima riflessione la portiamo nel nostro lavoro di fotografi che non è quello di osservatore distaccato, non si tratta del soggetto che guarda all’oggetto da rappresentare, ma è la persona che vive il paesaggio e lo incamera facendolo proprio, restituendolo e contribuendo alla sua creazione.
La superficie della Terra, qui nella Valle del Boite, dove rivolgiamo i nostri obiettivi e i nostri pensieri, in questo periodo pluriennale viene solcata, aperta e rimarginata cosicché possa accogliere e far sviluppare attività umane. Nel nostro procedere fotografico la progettualità non mira a contrapporre o confrontare il prima e il dopo, sebbene ciò incidentalmente avvenga e sia evidentemente un aspetto ricco di interesse, vuole invece e soprattutto metterci in grado di relazionarci con le trasformazioni, di osservare e, successivamente, di prendere atto della nostra stessa esperienza.
Le fotografie prodotte in questi anni, che ormai costituiscono un consistente archivio, divengono file di informazioni e, ad un certo grado, di memoria. Quest’ultima, come si sa, è anch’essa intimamente legata al concetto di tempo. Ed è grazie “alla memoria, [che] noi nel mirare le immagini, vediamo ciò che furono e ciò che saranno: è la poesia dello sguardo” diceva Alberto Savinio. La memoria a cui ci dedichiamo e che creiamo fotografando, però, è soprattutto una memoria delle trasformazioni, non ha cioè né valore assolutistico, né celebrativo, o reportagistico: sostanzialmente fotografiamo il processo in atto che, ad un certo punto, quando cioè giungerà a quiete e mostrerà il risultato fenomenico dell’azione, designerà il momento in cui il nostro lavoro terminerà, ovvero quando quel paesaggio nuovo resterà stabile per un po’(di tempo).
Le fotografie che realizziamo, pertanto, collegandosi ad un evento che possiamo definire storico3, danno la possibilità all’interlocutore del futuro di entrare nella presentificazione del processo di trasformazione, che abbiamo reso immagine fotografica, del quale prolunghiamo e prolungheremo il presente, e che nel medesimo operare, storicizziamo nell’arco di tempo di sette anni, il tempo della nostra permanenza qui. Cito nuovamente Savinio per indicare il modo in cui siamo entrati via via, nel tempo, nei meandri delle stratificazioni fenomeniche di questo territorio dove il termine fantasmatico è proposto per essere messo evidentemente in relazione alla sua radice etimologica greca: “viviamo in un mondo fantasmatico con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza”.
Analizzando il nostro percorso possiamo allinearci al fatto che: “ancor prima che la fotografia alimentasse il regime dei mass media, essa abbia prefigurato e contribuito all’instaurazione di un regime presentista relativamente all’esperienza dei tempi, ovvero quello di un presente che si storicizza gettando uno sguardo su se stesso e che trova nei media ottici e in particolare nella fotografia uno strumento per creare le immagini attraverso cui si farà storia”4, una storia che è ontologicamente contrassegnata da una contemporaneità indelebile, quanto meno all’interno di ciascuna fotografia, ovvero “di una imminenza arrestata.”5
1.“Cento anni di fotografia e due decenni di film ci hanno incredibilmente arricchiti sotto questo profilo. Si può dire che noi vediamo il mondo con tutt’altri occhi. Nonostante ciò, finora il risultato complessivo non va molto più in là di una produzione visiva enciclopedica.” Làszló Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, Einaudi 2010.
2. Hyppolite Bayard (1801 – 1887) è stato un fotografo francese, inventore del processo fotografico chiamato “stampa positiva diretta” presentato nel giugno 1839, affermò di aver inventato la fotografia prima di Louis-Jacques Mandé Daguerre e di William Henry Fox Talbot.
3. L’Olimpiade.
Roberta Agnese, Fotografia e culture visuali del XXI secolo, Il medium fotografico e la temporalità storica, Romatre-press, Roma, 2018, pag. 198.
Ivi, pag. 199.
Anatomia e Dinamica di un Territorio 2024
Anatomia e Dinamica, quinto anno della ricerca, avviata nel 2020.
E quinta edizione. Anche quest’anno, i seminari ideati da Giorgio Barrera han seminato, e tutti noi abbiamo seminato insieme a lui e ai giovani fotografi del Bauer, che ad aprile Dolomiti Contemporanee (DC) ha ospitato in Residenza in Progettoborca. E dopo aver seminato abbiamo raccolto, ed eccola qui, in queste pagine, una parte del raccolto.
Potremmo dire questo: l’epoca della seminagione culturale non segue le stagioni, ma cresce, e nutre, se si sa dare continuità alle pratiche della coltivazione.
Uno degli esiti di questa ricerca applicata al territorio, che è AdT, e alle trasformazioni in corso, è appunto il libro che ogni anno sintetizza il lavoro svolto, impaginando solo alcune degli scatti prodotti, che sono migliaia oramai, e che vanno a costituire un Archivio che verrà quindi valorizzato e sistematizzato attraverso altre iniziative.
Anatomia e Dinamica è una freccia all’arco del territorio, un dardo puntuale che scocca, mentre le corde degli archi vibrano attorno, spostando l’aria delle terre alte, corroborandola della ricerca sottile. Perché senza studio e analisi non vi è conoscenza reale, o ve n’è troppo poca, e automatismo della conoscenza è un’espressione pigra e inaccettabile, un anacoluto intellettuale, perché la conoscenza non banale della cose pretende approfondimento critico e studio, altrimenti, calcando le cose senza scandagliarle, la conoscenza delle stesse risulta inevitabilmente più povera, ed una conoscenza povera è un paradosso, e uno svantaggio strategico.
Vanno aumentati sempre, gli strumenti dell’indagine, della conoscenza, dello scavo, della penetrazione, e questi strumenti non devono venire esclusivamente dall’interno dei territori, e nemmeno esclusivamente dal loro esterno.
Bisogna saper mescolare, operativamente, fisicamente, dialetticamente, e frullare scientemente, i temi e le conoscenze del territorio e dei suoi abitatori con quelle dei ricercatori, che vengono da altrove, che hanno uno sguardo diverso, che non sono avvezzi ai luoghi. Per creare finalmente un reagente trasformativo organico integrato.
La buona critica, come la buona pratica, è la trasformazione, ovvero la coltivazione rigenerante, mica una teorica glossa infertile, ma una forma essenziale dell’attenzione e della sensibilità, che guida alla comprensione della realtà, e delle sue complessità, non sempre autoevidenti.
AdT è una freccia, ovvero un’arma, un’arma della conoscenza, dell’approfondimento, del focus sulle identità, o meglio sulle dinamiche identitarie, dei territori e delle persone che li abitano e attraversano. Oltrechè delle sue modificazioni fisiche.
Continuiamo ad avvicinare Milano Cortina 2026, l’Olimpiade che apre le strade e mette le gru nella Valle del Boite e sulla SS 51 di Alemagna.
A Cortina, in questo periodo, una gru torreggia sopra ad ogni albergo. Le gru sono gli alberi dell’Olimpiade.
Questa infrastrutturazione di cantiere va osservata, rappresentata, commentata. Dolomiti Contemporanee ha aperto un filone di ricerca su questo: l’abbiamo chiamato Infrastruttura Paesaggio, l’abbiamo generalizzato, ed esteso a tutto il territorio dolomitico.
Mentre AdT continua a concentrarsi sulla Valle del Boite, affrontandone aspetti e caratteristiche differenti. Quest’anno, uno dei temi di ricerca scelti e sviluppati da DC è la geologia.
Gli artisti includono la geologia nelle rappresentazioni immaginative e nelle invenzioni plastiche connesse ai territori della montagna.
Questo tema è stato proposto, ed accolto, anche da AdT. Mentre il tema dell’interazione tra geologia, territorio, fotografia, arte contemporanea, è stato anch’esso accolto da Emiliano Oddone, geologo esperto dell’ambiente dolomitico, che collabora con DC, e che, ad aprile 2024, ha introdotto agli studenti di AdT i temi del paesaggio geologico, guidandoli poi in un’esplorazione fisica di alcune zone, tra massicci ed affioramenti, tra Cadore e Zoldano.
In seguito a questa formazione introduttiva, alcuni dei fotografi dei seminari del 2024 hanno effettivamente deciso di approcciare il paesaggio dolomitico insieme ad Oddone, che ha guidato gli approfondimenti sugli aspetti specifici selezionati.
La geologia è una scienza della terra, e una macchina del tempo, che descrive una dinamica costruttiva ed evolutiva di Paesaggio, la sua genesi, le sue trasformazioni.
Non è affatto, la geologia, un comparto stagno, ma una sezione aperta nel corpo vivo della Montagna, salita, scalata, indagata.
E’ uno strumento della civiltà, anche, che consente di capire dove ci si trovi. Come si può andare in Montagna, senza saper nulla di questa Montagna?
Gli aspetti geologici non coincidono affatto con assetti statici dunque, l’Anatomia delle crode va conosciuta, perchè di ogni ricerca va conosciuto il contesto, che è un habitat dell’uomo, e delle altre creature. Comprende bene questa lettura, ed apprezza e questo approccio, chi non si chiude nella specificità della propria ricerca scientifica, ma inclina verso il Metamorfismo culturale. Noi, che qui stiamo ben dritti, osserviamo, raccogliamo, seminiamo, incliniamo.
Gianluca D’Incà Levis, curatore di Dolomiti Contemporanee e Progettoborca, direttore del Nuovo Spazio di Casso al Vajont
ANNO 2023
Segni, Tempo, Intreccio, Geografia, Immaginazione, Conoscenza, Memoria.
Avvisaglie. Il territorio al nostro arrivo nel mese di giugno1 reca segni dai quali possiamo dedurre che molti dei lavori previsti per l’olimpiade 2026 sono in procinto di partire.
Avviso e segno sebbene lontane etimologicamente non sono così distanti nel loro significato: se il primo termine utilizza l’immagine del viso per far comprendere che avvisare significa porre un alcunché innanzi agli occhi di qualcuno, l’altro è un fenomeno (un oggetto, un fatto, una manifestazione) dal quale posso trarre deduzioni, conoscenze2.
Quest’anno infatti l’ambiente si è tinto di linee arancioni, un arancione segnaletico che colora recinzioni perimetrali plastiche, che nell’immaginario contemporaneo hanno un significato ben preciso. Il paesaggio pensato di cui avevo parlato nel testo del volume precedente si esplicita quest’anno soprattutto attraverso linee che indicano luoghi di intervento e che, sebbene non sono in grado di mostrare ciò che sarà, ci possono però dire dove sarà. I segni di questi pensieri quindi, da quest’anno, iniziano ad essere visibili: larvalmente si manifestano nel territorio.
Guardando tutto ciò che abbiamo fatto fino ad oggi, posso dire che stiamo realizzando un immaginario foto-geografico e, dopo questi anni trascorsi a osservarlo e percorrerlo, si può con una certa sicurezza affermare che il territorio è l’attore, è il performer attivato dalla collettività oggetto della nostra indagine. Ma in questa riflessione, dove il territorio viene considerato come una persona viva, come ci rapportiamo ad un evento così eccezionale per una collettività di dimensioni così ridotte?
I progetti di quest’anno, grazie ad una rinnovata intesa con il Centro Studi di San Vito, hanno avuto come oggetto di indagine le cosiddette “zone umide”- nelle quali siamo stati letteralmente guidati dal Dott. Giulio Menegus -, la particolare e rara xiloteca3 custodita nel detto Centro Studi e alcune pratiche scientifiche di conoscenza dell’ambiente che lì si compiono e, come di consueto, la lettura dell’ambiente in trasformazione.
In particolare i lavori che hanno avuto oggetto le zone umide hanno affiancato il progetto europeo I-SWAMP4, dedicato al monitoraggio e alla protezione delle piccole zone umide delle regioni alpine.
Le zone umide sono ambienti in cui vi è presenza di acqua (stagni, torbiere, praterie umide), sia quando essa sia evidente in superficie ma anche quando la impregni solamente: la presenza di questi ambienti determina la sopravvivenza di un ecosistema unico, caratterizzato da una elevata biodiversità.
La xiloteca, una raccolta di legnami con finalità tassonomica risalente al XIX secolo, era originariamente composta da un centinaio di pezzi realizzati ciascuno con la corrispondente specie di albero. Ogni teca, sagomata come fosse un libro, contiene al suo interno tutte le parti costituenti l’albero a cui si riferisce e alcuni derivati del legno, quali ad esempio cenere e carbone. All’interno di ciascun libro è presente un foglietto scritto a mano che descrive alcune caratteristiche dell’albero stesso. Ad oggi, la collezione consta di cinquantasei pezzi perché nel tempo gli altri, per varie ragioni, sono andati persi o distrutti.
Probabilmente in questo volume più che in quelli precedenti è possibile comprendere, proprio attraverso l’indagine fotografica, il senso più profondo di questi seminari. Il momento della trasformazione è in atto, ma mentre ciò avviene o sta per avvenire compiutamente, la quotidianità e la storia del territorio si intrecciano come in una sceneggiatura cinematografica dove la linearità del tempo si mescola a flashback e flashforward. Lo abbiamo accennato più volte nel passato, magari con terminologia diversa: quella dell’uomo è una presenza medianica fra pensiero (il paesaggio pensato) e materia (la fisicità del mondo), il risultato è il divenire che si trasforma in presenza che diviene storica, territorio o paesaggio: le scenografie dell’attuale, dell’osservazione, del mondo della vita.
Una caratteristica fondamentale di Anatomia e dinamica di un territorio è la sua perseveranza. La nostra può anche essere considerata una forma di accudimento persistente a questo territorio che ne accompagna per un lasso di tempo l’esistenza. Siamo presenti e lo dimostriamo con le nostre fotografie. Per chi leggesse questo libro e non avesse visto i volumi precedenti, questi seminari sono stati avviati nel 2020 e continueranno fino al 2026 (anno di svolgimento dell’olimpiade invernale Milano-Cortina).
Sinteticamente, la finalità è quella di realizzare una documentazione pluriennale della Valle del Boite, uno dei territori cadorini in trasformazione in conseguenza di una serie di interventi infrastrutturali che si produrranno in occasione della detta olimpiade. I seminari sono anche il mezzo che permette agli studenti di entrare in relazione con enti territoriali e abitanti e di abituarsi a lavorare in maniera collettiva. Il loro lavoro restituisce al territorio un’importante archivio fotografico e, non infine, una serie di occasioni di scambio e relazioni interdisciplinari che nascono proprio grazie alla fotografia e che possano perdurare nel territorio, nel tempo. Del resto “Se si vuole descrivere un luogo, descriverlo completamente, non come un’apparenza momentanea ma come una porzione di spazio che ha una buona forma, un senso e un perché, bisogna rappresentarlo attraversato dalla dimensione del tempo, bisogna rappresentare tutto ciò che in questo spazio si muove, d’un moto rapidissimo o con inesorabile lentezza: tutti gli elementi che questo spazio contiene o ha contenuto nelle sue relazioni passate, presenti e future. Cioè la vera descrizione di un paesaggio finisce per contenere la storia di quel paesaggio, dell’insieme di fatti che hanno lentamente contribuito a determinare la forma con cui esso si presenta ai nostri occhi, l’equilibrio che manifesta in ogni suo momento tra le forze che lo tengono insieme e le forze che tendono a disgregarlo.”5
Una delle idee fondanti di Dolomiti Contemporanee è quella di considerarsi, ed essere, un cantiere. La parola cantiere ha un’etimo alquanto bizzarro e sebbene discenda dal significato latino di cavallo castrato e perciò docile ed adatto al lavoro, l’immagine che questo termine evoca oggi è quella di un luogo attivo, un luogo del fare. Anatomia e dinamica di un territorio è un cantiere all’interno di un cantiere.
Il territorio che abbiamo fotografato quest’anno, in cui i tracciati dell’avvenire sono stati posti, suggerisce attesa, crea immaginazione. Quando un progetto tecnico viene mostrato per mezzo di una ricostruzione grafica fortemente verosimile a ciò che sarà, di fatto esso è cristallizzato nel momento in cui è completamente realizzato e sarà agibile, si tratta di una pre-visualizzazione mimetica immersa nell’ambiente che l’ospiterà. Anche quest’ultimo, nella rappresentazione grafica, si dà identico ed immobile, fissato nel tempo. La nuova presenza è però destinata a essere parte integrante del territorio e perdurare nel suo divenire, cosicché il nuovo elemento creerà o eliminerà una serie di consuetudini riguardanti ambiti molto differenti della gestione e dell’uso dei luoghi, dal tempo libero fino alle attività economiche. L’immagine grafica però non ci dice niente a questo riguardo. Se è vero che il mondo è divenuto immagine e che per la cultura dell’uomo moderno fra mondo e immagine non vi è sostanziale differenza, ovvero l’immagine vale tanto quanto il reale, forse nella nostra indagine questa credenza, che si è storicamente e stabilmente consolidata anche grazie all’immagine fotografica, viene meno. Il nostro lavoro è una lettura, uno studio composto di punctum che sono resi possibili dalla nostra presenza che vuole divenire, archivistica e archeologica e, come avevo scritto nel volume precedente, alla fine di tutto, possediamo una contestualità pluriennale.
Il territorio pensato dalla politica, che come detto è una rappresentazione che si mostrerà nella realtà, e che diverrà simbolo della politica stessa, corrisponderà alle esigenze e i gusti della popolazione e ai fabbisogni della comunità?
Nel discorso che faccio vi è perciò una possibile discrepanza fra rappresentazione previsionale dei luoghi interessati alle trasformazioni e la realtà che verrà percepita, ma anche una possibile discrepanza fra l’immagine della realtà richiesta dalle necessità politica con quella delle necessità della comunità. E i giudizi della comunità non è detto che siano unanimi nel valutare l’operato della politica.
Nel realizzare un immaginario foto-geografico6 di quest’area in un determinato periodo, ci rendiamo sempre più conto che le nostre sono rappresentazioni culturali perché “le immagini, in quanto plasmatrici delle identità delle persone e della comprensione del mondo, modellano anche il mondo stesso.”7 L’immaginario che creiamo non vuole essere fantasioso, nel senso di creare o rafforzare un immaginario che sarà preso in considerazione per valutare erroneamente questi luoghi o dar loro connotazioni pittoresche o nostalgiche, ci interessa descrivere fotograficamente, nel senso di realizzare figurazioni, e di farlo accuratamente, nel senso di prendersi cura eticamente del paesaggio in divenire.
Detto tutto ciò, se con il nostro agire creiamo un immaginario, lavoriamo in un contesto che ha funzione di testimonianza materiale (il suolo e ciò che esso ospita) in maniera pluriennale e con una finalità specifica, siamo un osservatorio che si prende cura dell’ambiente ed ha finalità archivistiche, ecco che la predisposizione ad analizzare il nostro operare, proprio quest’anno, in cui il territorio in latenza si tinge di tinte arancioni, rivela inequivocabilmente un concetto che è stato presente ma immanifesto in tutto questo testo: quello di memoria. La memoria che è tanto legata sia all’incedere del tempo8 sia alla fotografia, è la capacità della mente, ma anche degli strumenti che ne fanno le veci, di poter conservare informazioni le quali, nel nostro lavoro, forse soprattutto, possono e potranno ricondurre proprio alla capacità di innescarla.
1. 2023
2. Cfr. l’enciclopedia online treccani.it, segno.
3. “L’appassionato di cultura locale (non solo di storia e d’arte, ma di tutto ciò che fa la conoscenza di un luogo, struttura geologica, flora, fauna, linguaggio, tradizioni, curiosità) è un personaggio che ebbe nell’Ottocento il suo periodo di massima fioritura e permise la raccolta di materiali preziosi per la conoscenza del nostro paese; per fortuna non se ne è ancora del tutto persa la traccia.” Savona-storia e natura in Ferro rosso terra verde, Genova, Italsider, 1974, pag. 34.
4. I-SWAMP (Monitoraggio e Protezione Integrata delle Piccole Zone Umide delle Alpi) è un progetto su piccola scala dell’Interreg Spazio Alpino, finanziato dall’Unione Europea. Il partenariato è composto dall’Università di Padova, Dipartimento TESAF (IT, partner capofila), Istituto della Repubblica di Slovenia per la Conservazione della Natura o ZRSVN (SI) e EGTC Geopark Karawnake/Karawanken (AT).
5. Italo Calvino, Savona-storia e natura in Ferro rosso terra verde op. cit., pag. 80.
6. Una questione semplice ma sempre presente in questo tipo di indagini è che spesso la documentazione non è realizzata dalla collettività e nemmeno più attraverso committenze pubbliche. Il risultato pare essere il voler dimenticarsi della memoria.
7. Cfr. Geografia Imaginativa, Encyclopedia of Human Geography, https://www.sciencedirect.com/topics/social-sciences/imaginative-geography (11/2023)
8. Crono e Mnemosine nella mitologia greca sono fratelli, tempo e memoria legati da una stessa origine.
Il progetto I-SWAMP
Il progetto I-SWAMP (Integrated Small Wetands of the Alps Monitoring and Protection) è un piccolo Progetto co-finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Interreg Alpine Space. Attivo dal settembre 2022 al febbraio 2024, si propone di contribuire alla conservazione della rete di zone umide della regione alpina, concentrandosi sui siti minori (di piccola dimensione, spesso poco protetti, studiati e più facilmente modificati).
Come tutti i progetti Interreg, il partenariato che sostiene I-SWAMP comprende enti di diverse nazioni europee: in particolare il dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università degli Studi di Padova (lead partner, in rappresentanza dell’Italia), l’Istituto della Repubblica di Slovenia per la Conservazione della Natura (IRSNC, in sloveno Zavod Republike Slovenije za Varstvo Narave) e il parco transfrontaliero austriaco-sloveno EGTC Geopark Karavanke/Karawanken UNESCO Global Geopark (in questo caso, in rappresentanza dell’Austria). La necessità di collaborare nasce dalla consapevolezza che le pressioni e le minacce agli ambienti naturali, e in particolare alle zone umide, sono perlopiù comuni nell’intero territorio alpino, nonostante le diversità tra le culture e le comunità nazionali e regionali. La vicinanza geografica impone anche di tentare una conservazione integrata e coerente almeno alla scala regionale, perché è chiaro a tutti che le popolazioni delle specie rare o protette a livello comunitario non sono divise dai confini amministrativi nazionali.
Le zone umide sono una grossa categoria di ecosistemi, presenti in tutto il mondo in tutti i continenti, a tutte le latitudini (Keddy, 2010; Schumann & Joosten, 2008). Ciò che accomuna questi ecosistemi è la presenza regolare o permanente di acqua (il suolo può essere allagato o semplicemente saturo d’acqua), in modo sufficiente da creare delle condizioni di anaerobiosi (un ridotto scambio con l’ambiente subaereo) nei suoli (Keddy, 2010). Questi particolari suoli selezionano una vegetazione composta di specie adattate all’allagamento e alla vita in suoli saturi d’acqua (Keddy, 2010; Schumann & Joosten, 2008). Si vede allora, immediatamente, che le zone umide hanno una causa fisica (la presenza di acqua) e un primo effetto sono delle particolari condizioni di chimica del suolo (l’anaerobiosi), ma che ciò che conta davvero, e che ci permette di diagnosticare facilmente la presenza di una certa tipologia di zona umida, è la presenza di comunità vegetali particolari (Keddy, 2010).
In linea di principio, tutte le zone umide possono essere classificate come appartenenti ad almeno una di sei categorie principali: le paludi boscate o alberate (in inglese, swamp, ambienti raramente allagati, dominati da specie arboree: ne sono un esempio le grandi paludi a Taxodium del Nord America, le paludi di mangrovie, i nostri boschi palustri a ontani), le praterie umide (in inglese, wet meadows, in cui si alternano brevi periodi di allagamento a lunghi periodi di emersione, oppure in cui il suolo è scarsamente drenato e rimane sempre relativamente saturo d’acqua, sono ambienti dominati da comunità erbacee di vario tipo: ne sono un esempio le praterie a Molinia e le bordure a megaforbie igrofile delle nostre Alpi), le paludi (in inglese, marshes, ambienti frequentemente allagati, in genere eutrofici, dominati da piante erbacee ancorate ed emergenti: ne sono un esempio i canneti, i tifeti, i magnocariceti), le torbiere basse (fens, ambienti in cui il suolo è costantemente saturo d’acqua, che si formano in climi freschi e umidi, in ambienti poveri di nutrienti alimentati da acque di scorrimento o sorgive, per cui il pH è neutro-alcalino, dominati da piante erbacee e in cui la biomassa organica si accumula come torba), le torbiere alte (bogs, ambienti simili alle torbiere basse, di cui costituiscono in genere un risultato successionale: sono le torbiere talmente antiche da arrivare ad avere il primo strato di torba che è alimentato esclusivamente da acque di precipitazione, per cui il pH è più acido e il suolo è estremamente povero di nutrienti; sono dominate da alcuni muschi chiamati sfagni) e i piccoli corpi d’acqua poco profondi (pozze, stagni, laghetti, permanenti o temporanei) (Keddy, 2010). Non sono considerate zone umide i corsi d’acqua e i laghi di grandi dimensioni, ma nulla vieta che questi ambienti e le varie tipologie di zone umide siano a stretto contatto tra loro, e sfumino l’uno nell’altro senza un confine netto (Keddy, 2010): in natura queste mutazioni repentine esistono, ma non sono la regola. È facile mettere un po’ di ordine in questa lista un po’ confusa, se si considera che le diverse tipologie si formano in diverse condizioni, a seconda di diversi fattori ambientali (i principali dei quali sono la durata, la frequenza, l’importanza dell’allagamento, la qualità dell’acqua e la disponibilità di nutrienti), e che presentano almeno due caratteri diagnostici relativamente immediati (la presenza di acqua e la presenza di comunità vegetali caratteristiche, con un loro aspetto riconoscibile) (Keddy, 2010).
Quando si pensa all’ambiente alpino, difficilmente si pensa alle zone umide: ciò è in parte dovuto alla loro rarità, poiché in ambienti montuosi, caratterizzati da pendii acclivi e, in molte aree, da importanti fenomeni di carsismo (le Alpi orientali, tra cui le Dolomiti, ne sono un esempio), la permanenza di acqua in superficie non è favorita, per cui gli ambienti umidi sono spesso numerosi ma di piccola dimensione e hanno una ridotta superficie totale. Ciononostante, questi ambienti costituiscono una parte integrante del paesaggio alpino e anzi, per alcune categorie, come le torbiere, la regione alpine si attesta come una delle regioni dell’Europa centro-meridionale più ricche: ciò è dovuto alla presenza di un clima fresco (dovuto all’altitudine mediamente elevata), e si verifica anche in altre catene montuose dell’Europa meridionale (per esempio, i Pirenei) (Bracco e Venanzoni, 2004). Comunque, in generale le zone umide sono poco conosciute, e talvolta anche disprezzate dal pubblico generalista. Tradizionalmente questi ambienti sono stati visti come improduttivi, inutili, pericolosi, malsani. Il disprezzo per essi è testimoniato dal ruolo che hanno nella simbologia della società occidentale (non a caso l’Inferno dantesco comprende una Palude Stigia) e dal significato negativo che hanno in diverse espressioni in varie lingue europee (in italiano: impantanato, acquitrinoso, stagnante…). In passato, diverse zone umide sono state oggetto di estesi interventi di bonifica su larga scala (ne sono un esempio le grandi campagne di bonifica italiane di fine ‘800 e del ‘900), con danni incalcolabili per la biodiversità e per il paesaggio.
Anche le zone umide alpine hanno subito e subiscono diverse pressioni, che vanno dalla distruzione diretta, per far spazio a paesi e infrastrutture in espansione, alla bonifica tramite canali (“solchi”) di drenaggio, per reclamare l’ambiente a pascolo, all’abbandono delle pratiche tradizionali di gestione, al pascolo mal regolato, all’introduzione di pesci, spesso alloctoni, in piccoli bacini, allo sfruttamento idrico, al riscaldamento climatico (Bonometto, 2020).
Ciononostante, le zone umide alpine ospitano ancora una quota considerevole della biodiversità regionale: un rapido conteggio ci dice che delle quasi 2000 specie di piante vascolari segnalate per le Dolomiti Venete (Argenti et al., 2019), circa una su cinque è legata ad ambienti di zona umida di vario tipo. Tra queste piante troviamo orchidee, carici, eriofori, giunchi, tife, cannucce di palude, ranuncoli, salici, ontani, e piante carnivore in tre diversi generi (Drosera, Pinguicula, Utricularia). Allontanandoci dalle piante, le Alpi ospitano circa decine di specie di libellule (Siesa, 2017), circa 20 specie di anfibi, e numerosissime specie di coleotteri, ditteri, tricotteri, farfalle, crostacei, uccelli, rettili, anche molluschi bivalvi, legati alle zone umide per almeno una parte del proprio ciclo vitale (spesso, in molte specie di questi gruppi, la fase larvale si svolge in acqua, come nel caso di libellule, rane, rospi e tritoni; in altri casi, questi animali sono legati a piante di zone umide, come nel caso di molte farfalle). Le zone umide sono dunque habitat estremamente importanti, perché gli unici adatti a ospitare molte di queste specie. E, oltre a ciò, forniscono importantissimi valori ecosistemici, che vanno dalla filtrazione e depurazione delle acque, alla riduzione del rischio alluvionale, allo storage di carbonio, ai servizi ricreativi, turistici, scientifici, culturali.
Viste tutte queste considerazioni, il partenariato che sostiene I-SWAMP ha deciso di dedicarsi alla conservazione di questi ambienti in vario modo: con interventi pilota di monitoraggio e conservazione o ripristino di tante piccole zone umide in Italia, Austria, Slovenia; con la preparazione di un libretto didattico ora scaricabile in 5 lingue dal sito di progetto, dedicato agli insegnanti e agli studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado; con l’organizzazione di attività e laboratori con le scuole e di conferenze per il pubblico; con l’organizzazione di momenti di formazione e la preparazione di materiale tecnico-scientifico (relazioni sulle attività e linee guida per il monitoraggio e la conservazione) ora disponibili sul sito di progetto, dedicati ai vari stakeholders (amministrazioni, associazioni, professionisti, naturalisti). Tutti i documenti di progetto possono essere scaricati dalla sezione “Resources” del sito alpine-space.eu/project/i-swamp/.
Tra tutte queste attività mi è stato chiesto di preparare degli interventi e delle visite guidate in Cadore per due gruppi di studenti del biennio di fotografia del CFP Bauer di Milano, nell’ambito dei seminari “Anatomia e dinamica di un territorio”, nel giugno 2023. I seminari, organizzati da Bauer/Afol Metropolitana e Dolomiti Contemporanee, in parternariato con il TESAF, Centro Studi per l’ambiente alpino di San Vito di Cadore dell’Università di Padova, e curati da Giorgio Barrera, documentano già dal 2020 le trasformazioni del territorio della Valle del Boite in relazione all’olimpiade invernale Milano – Cortina che si terrà nel 2026. Il tema era fornire un’idea di qual è lo sguardo di un biologo o di un ecologo quando si avvicina alle zone umide.
E allora come si muove questo sguardo? Per prima cosa un ecologo riconosce le zone umide da distante: è la presenza di pozze, rivoli, sorgenti, di acqua poco profonda e stagnante o debolmente corrente, spesso nera, bruna o rossastra, con riflessi viola-bluastri che lo attira. Quando non è la presenza di spazi d’acqua, è il colore della vegetazione, più verde, più grigio, più intenso. Per le torbiere sono le distese di eriofori in fiore, con i loro ciuffi bianchi e cotonosi che oscillano al vento, per le torbiere a sfagni sono i cumuli di muschi spugnosi, bruni e rossicci. Per le paludi è la presenza di grandi e densi popolamenti di erbe alte, ancorate nel suolo fangoso, spesso con infiorescenze evidenti (come nel caso delle tife o della cannuccia di palude). Per i boschi palustri sono radi popolamenti di salici, ontani, frassini, in suoli fangosi, con rivoli o pozze. E in ciascuno di questi ambienti, l’occhio dell’ecologo cerca rane e rospi, e le loro uova galleggianti, spesso in enormi distese, lattiginose (la Rana temporaria) o in cordoni neri attorcigliati sui rami caduti in acqua (il rospo comune); cerca le robuste libellule che volano rapidamente, spesso con colori sgargianti nei toni del blu, del verde e del rosso; cerca le sottili damigelle che si alzano dalla vegetazione in pieno sole, per posarsi al ritorno delle nuvole; cerca negli spazi lasciati aperti dalla vegetazione cespitosa le piccole piante carnivore, con le loro rosette di trappole (le foglie modificate) e i tanti piccoli insetti appiccicati; cerca nelle spighette delle carici indicazioni sul tipo di suolo, sulle pressioni e sull’ambiente. E cerca ovviamente i segni di scavo, di siccità, di calpestio da parte di bovini o cavalli, di eutrofizzazione; cerca le prese d’acqua e i pozzetti, e tutti gli altri segni di attività antropica. E se vede le vacche o i cavalli distesi al sole sulla torbiera, non ci vede una scena idilliaca, ma un problema da risolvere.
Letteratura citata:
Argenti, C., Masin, R., Pellegrini, B., Perazza, G., Prosser, F., Scortegagna, S., & Tasinazzo, S. (2019). Flora del Veneto. Cierre Edizioni, Caselle (TV).
Bracco, F., & Venanzoni, R., 2004. Introduzione. In Minelli, A. (Ed.) Le torbiere montane – Relitti di biodiversità in acque acide. Quaderni habitat, Museo Friulano di Storia Naturale, Udine.
Bonometto, L., 2020. Le libellule del Cadore. Le specie, gli habitat, il loro declino, le tutele possibili. Parco naturale regionale delle Dolomiti d’Ampezzo, Cortina d’Ampezzo (BL).
Keddy, P. A., 2010.Wetland ecology: principles and conservation. Cambridge university press.
Schumann, M., & Joosten, H. (2008). Global peatland restoration: Manual.
Siesa, M. E., 2017. Le libellule delle Alpi: come riconoscerle, dove e quando osservarle. Blu Edizioni.
Giulio Menegus, Università degli studi di Padova
ANNO 2022